23.03.2014
ROBERTA TREBBI

Con le Ariette ho conosciuto un'incertezza emozionante.
Penso soprattutto alla prima volta, o almeno il ricordo è così intenso, che pur incerta la considero la prima volta: nella loro cucina quando mi venne da chiedermi se si aspettavano qualcosa direttamente da me.... Per alcuni lunghi minuti non capii chi ero: solo spettatore e allora dovevo stare ferma e ascoltare e a questo ero abituata (avevo anche pagato un modestissimo biglietto pensavo e "modestissimo" l'avrei pensato ancora tante volte dopo quella sera, ma questo ancora non lo sapevo) dal teatro - vogliamo dire "tradizionale"? - oppure mi si richiedeva di muovermi anch'io, di attivarmi, di partecipare, di aiutare, di entrare dentro le loro emozioni...
Oppure no ... spettatore sì (il gesto di Paola arrivò in mio soccorso e io mi acquietai, almeno fisicamente) perché potevo stare ferma sulla mia sedia ma che platea non era. Inoltre io ero già movimentata dentro e quindi capii che comunque lì il teatro era altro da quello del Duse ecc. ecc.
Intanto il mio corpo non era allineato con altri corpi in file ordinate e con gli attori tutti insieme distanti e di fronte.
Loro ci giravano attorno e ci comunicavano altro, non una parte interpretata ma ci comunicavano loro stessi al passato e al presente,,,,
Insomma non li conoscevo e loro non conoscevano noi ma si rivelavano subito e io pensai alle sculture di Giacometti. Non sono un'esperta di scultura, non pensatelo perché cosi non è, ma ecco questo teatro arriva all'essenza umana non filtra, non si ricopre di una parte scelta tra testi altrui, ogni volta si propone all'osso di se stesso.
Forse non siamo noi che ci facciamo teatranti, forse non sono loro che si fanno spettatori ma il circuito che si crea mischia i soggetti e quella emozione promiscua è teatro. Per me, almeno.