23.03.2014
AZZURRA D'AGOSTINO

TEATRO, TEATRANTI, SPETTATORI.
UN INCONTRO PER CELEBRARE I 25 ANNI DEL TEATRO DELLE ARIETTE


Là dove tutto è concreto: corpo, spazio, voce, luce - e al contempo tutto non visibile: atmosfera, sensazione, evocazione, pensiero occorre andare per esempi sì da tentare di avvicinarsi in punta di piedi, con delicatezza, alle parole. Le parole per il teatro i teatranti, gli spettatori. Il bacino dei testi da cui attingere è immenso, e non sono riuscita a fare un mediato collage. Ho pensato però un inizio, ovvero le parole-area, in cui andare a cercare tutte le altre che hanno a che fare con questi tre strani 'personaggi' - il teatro, i teatranti, gli spettatori - e che per loro sono state scritte. Le tre parole sono amore e vita e morte, e qui cercherò di spiegare perché queste tre innanzi tutto e non altre.

Oggi siamo in una giornata speciale, che è una festa e un anniversario assieme, un momento che è stato reso collettivo e a maggior ragione significativo, perché si è invitati a parlare viso a viso, e dar spazio a quello che spazio non ha mai. A ben vedere, questo nostro incontro ha molto a che fare con qualcosa che è nascosto dietro a parole purtroppo usurate: innanzi tutto, amore. Poi, anche, morte. E, di conseguenza, vita. Io queste parole provo a interrogarle, ma è tanto difficile poterle prendere sul serio, nel momento in cui son state depotenziate, scaricate, e si fa fatica a fare chiarezza, a credere in loro, a 'essere parlati' da loro come sarebbe forse opportuno. Ci si limita a nominare, così come si fa con altre parole altrettando vaste e pericolose come 'comunità', 'urgenza', 'condivisione'. Ma nominare non basta, per essere trafitti dal senso. A meno che non sia un nominare speciale, legato al fare stesso dell'arte, qualcosa che però in un discorso corale come questo è molto difficile, e non so se sono in grado.

Mi piacerebbe allora provare a fare un esercizio insieme, una specie di gioco, per entrare nell'ascolto di queste tre parole e parlare così anche del loro legame con il teatro.

Concediamoci un po' di tenerezza verso noi stessi pensando a un ricordo. Il primo bacio che abbiamo dato a una persona di cui eravamo molto innamorati. Pensiamo silenziosamente dentro di noi a quel momento: era sera, pomeriggio? Ricordiamo il clima, la luce? Ricordiamo cos'è accaduto, come? Sostiamo in quel momento in cui ci è sembrato di essere felici, indipendentemente da cosa è successo dopo, da dove ci ha portati la vita. Eravamo giovani, probabilmente, tante cose dovevano ancora capitare, cambiarci. Magari eravano adolescenti, magari quello era il nostro primo bacio. Un momento sospeso, fragilissimo e remoto, forse non ripercorso con frequenza dalla memoria, una frazione di tempo isolata ma che pure ha un suo senso, e che ci ricollega a tutti i grandi amori di tutti i tempi: l''ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale', di Montale, in quel momento era per noi, anzi era noi; così come lo era Dante, e il Per Elisa di Beethoven, e le parole di Shakespeare. Eravamo attoniti, sbigottiti di bellezza e felicità; sorpresi che la vita potesse mostrarsi con lati tanto potenti pur nell'elementarità di un gesto compiuto da millenni da tutti i più oscuri umani caduti nel buio prima di noi, e che proseguirà dopo di noi, molto tempo dopo che noi saremo spariti. Ora pensiamo alla prima volta che, nel buio di una sala, ci siamo seduti e abbiamo visto quello che identifichiamo come 'lo spettacolo che ci ha cambiato la vita'. Sapremmo dire di certo chi era in scena, come era vestito, forse persino che tempo faceva fuori e chi ci accompagnò quella sera a teatro o se andammo soli. Ecco quando ripenso a questi due ricordi, e li accosto, la delicatezza e violenza che sento è piuttosto simile. Un sentimeno di enorme nel piccolo, un senso di smarrimento nelle coordinate più precise. E così come quel bacio ci ha cambiati per sempre, anche quel momento a teatro ci ha forse cambiati altrettanto definitivamente. Magari ci sentiamo spostati di poco, ma non saremmo quello che siamo senza quelle due esperienze. Poi la vita va avanti, e ciascuno segue i propri percorsi; ma è raro che vi sia chi non ritenta poi di cercare ancora e ancora quel sentirti magnificamente perduto una volta che s'è innamorato. Credo che tentare di portare nel proprio mondo quella vicinanza col tutto-pieno e al contempo tutto-vuoto che è quell'innamoramento sia un'avventura umana impagabile, che rende la parola 'amore' densa perché la trasforma in un giorno-per-giorno, perché come spettatori, teatranti, cittadini nel momento in cui cerchiamo con la pratica quotidiana di dedicarci a qualcosa che ha a che fare con l'amore sia qualcosa che possa cambiare il mondo e, di certo, le nostre vite, rendendole meno scollate da quelle degli altri e più vicino alla sorgente, al fondamento di noi come esseri umani. Che si sia artisti, che si sia lavoratori dello spettacolo, che si sia spettatori, la consapevolezza di fare quello che si fa con l'entusiasmo gioioso che ci ha fatto dare e ricevere il primo bacio forse può far superare tante fatiche e battaglie e inventare nuovi modi, di cui c'è bisogno, per condividere questo poco tempo che c'è concesso sulla terra.

Per parlare della vita e della morte, che con tutto questo ha a che fare, e con il teatro specialmente, vorrei fare invece un esempio concreto. L'ultimo lavoro che sono andata a vedere in teatro, da spettatrice, si intitola 'La vita ha un dente d'oro'. è a firma di Claudio Morganti per la regia, di Rita Frongia per la drammaturgia e vede in scena Gianluca Stetur e Francesco Pennacchia. Non intendo fare una recensione, ma semplicemente cogliere una suggestione: a un certo punto, Pennacchia guardando nel buio del pubblico invita il suo compagno in scena all'ascolto. Senti? Ad ascoltare tutti i respiri di quelli che sono in sala. E improvvisamente tutta la sala si sente respirare, ci si protende ad ascoltare il respiro della persona seduta accanto a noi, e anche quelli delle due figure sul palco. Su di loro concentriamo lo sguardo: quelle mani, quelle spalle, quella voce, quel modo di dire quella cosa. Tutto questo è dato una volta per sempre, esattamente come nella vita. E al contempo, sta finendo e morendo per sempre nel momento in cui accade, proprio come ogni piccolo secondo che passa nelle nostre esistenze. Ecco perché l'arte dell'attore ha per me qualcosa di estremamente affascinante e potente, perché smuove in me così grandissima commozione: perché l'attore fa della sua vita il continuo esporsi, porgersi fuori, verso la morte. Il teatro, tramite l'attore, è il tentativo fallimentare di vincere la morte, e lo fa portando sulla scena la morte stessa: non solo il suo morire continuo, ma anche il suo sé replicato che va in scena. C'è in questo un agone, una lotta che è l'agonia dell'andare in scena, atto gioioso ma anche solitario, che non può garantire nulla e non è garantito, perché ogni volta si tratta di un arrischiare e non di un semplice raggiungere un risultato. Il teatro accade quando ci si sposta dalla logica della prestazione, della vittoria nel conseguire un risultato: accade là dove c'è la massima apertura, il divaricarsi di un abissale vicinanza col sovrumano proprio là dove si rivela il più che umano, ovvero la finitudine. In questa mescolanza di essere e non essere si muove, proprio come il poeta che manca continuamente la cosa-da-dire, l'attore, colui che chiama fuori (evoca) l'assenza tramite la propria presenza, e che nel suo essere irrisolto, incerto, proprio quando è nel pieno della perfezione del suo fallire, porta da presso il suo essere mortale. In tutto questo impasto vita e morte si mescolano, la nostra dimensione si slarga, si amplifica l'eco che porta in qua da chissà dove l'oltre che noi possiamo percepire solo tramite sensi, ritmi, tagli di luce, parole e intonazioni. Quel qualcosa che è tutto questo ma è anche un incommensurabilmente e inesprimibilmente altro. Giungere in questo stadio, un insieme di pensiero, fatti, sensazioni, dubbi, è uno stato di grazia. Rarissimo e non raggiungibile a comando. Riguarda gli artisti, forse in quella strana parola che si chiama ispirazione, ma anche gli scienziati, ma anche chi faccia quello che fa devotamente, del tutto concentrato e al contempo aperto alla pratica a cui si dedica in un dato momento: che sia la contemplazione di un paesaggio, l'ascolto delle parole di un amico, la cesellatura di un pezzo di legno, la costruzione di un muro. Oggi si tenta di sfuggire in ogni modo questi momenti: che sono pericolosi perché ci mettono di fronte a pensieri che non siamo quasi mai disposti a pensare. Per questo forse ci si lascia distrarre tanto facilmente, per questo è tanto difficile accogliere la situazione di smarrimento che l'arte - e in particolare a mio avviso il teatro e la poesia - ci costringe in modi impensabili ad affrontare.
Forse per questo l'amore, la morte, la vita, sono tre parole che oggi è tanto difficile usare, dopo che son state strappate via dalla pubblicità, dalla retorica, dalla propaganda. Forse per questo cerchiamo caselle per tutto, e fin da bambini siamo incasellati nei banchi e nei ruoli, disabituati ai linguaggi che ci chiedono di 'completare il lavoro'. Forse per questo i teatri vengono chiusi, ma anche, grazie alla voglia di non sottrarsi al nostro destino di effimeri perennemente in pericolo, sono state scritte poesie come questa, che trovo un divertente monito:

C'è chi meglio degli altri realizza la sua vita.
È tutto in ordine dentro e attorno a lui.
Per ogni cosa ha metodi e risposte.

È lesto a indovinare il chi il come il dove
e a quale scopo.

Appone il timbro a verità assolute,
getta i fatti superflui nel tritadocumenti,
e le persone ignote
dentro appositi schedari.

Pensa quel tanto che serve,
non un attimo in più,
perché dietro quell'attimo sta in agguato il dubbio.

E quando è licenziato dalla vita,
lascia la postazione
dalla porta prescritta.

A volte un po' lo invidio
- per fortuna mi passa.

 

Il mistero non è l'incomprensibile ma l'inesprimibile.
raccontino per quadri di un incontro
personale col teatro


Fin dai miei più remoti ricordi è la parola il punto di apertura di squarciamento e di rivelazione e tremore, ciò che rende l'esistenza un pozzo in cui cascare ma cogli occhi al cielo. Non proprio un sollievo, ma di certo una possibilità di 'fratellanza' (e non solo tra umani, seppur nel modo degli umani), diciamo così.

Questo amore è sbocciato nei lunghi pomeriggi solitari di una bambina di provincia che conosceva la noia, aveva quel lusso. Dalla noia nascevano incontri meravigliosi, coi libri e le canzoni e le filastrocche e le passeggiate nella natura che circondava la mia casa d'allora - e che è tornata a essere la mia casa attuale da quasi dieci anni.

Nella provincia ho incontrato i primi giochi chiamati teatro: a scuola, come tanti della mia generazione, e lì scoprii che non era come attrice che volevo stare in quel gioco: di nuovo la parola mi venne incontro e sentii che per me l'estendere in altra voce e altro corpo parole che amavo era gioia rara. Amare una parola e consegnarla ad altri è un modo di esplorare altre possibilità dell'essere, annullarsi e rinascere altro al contempo.

Si cambia, l'Univesità, scena altra, una Bologna più celebrata che reale, ma pure straordinariamente fertile per chi ventenne fosse aperto agli incontri. Altre parole, fondare una rivista, scoprire e incontrare tutti i poeti viventi o quasi, i narratori, i traduttori. E una sera, al teatro di Leo (era qualche mese prima che cadesse ammalato) ascoltare e vedere per la prima volta un teatro e una parola mai conosciuti: era 'Chioma' della Valdoca, nessuno di noi frequentava il teatro contemporaneo e ne fui folgorata.

Da lì, la ricerca di tutto quello che potesse far di nuovo accadere quello stupore, quello sgomento che succede la prima volta che qualcosa ti parla in forma nuova: senza un vero appoggio critico e senza consapevolezza, semplicemente essere spettatore per andare a cercare 'quando succede il teatro'. Incontrare grazie a questa voglia artisti straordinari che si rivelano straordinarie persone, anche: dal nord al sud d'Italia trovare piccoli spazi curati con amore, opere come perle che stanno chiuse in fondo al mare.

Da questi incontri, è nato talvolta un intreccio che ha fatto sì che si fosse congeniali, o nello stesso punto di un percorso, tanto da creare insieme. Ho tentato sempre fallendo di mettere le parole che posso al servizio di altri corpi e sguardi e il ricordo più bello sono le tante ore chiusi in sala prove, da me eletta il nuovo favorito spazio in qualche modo simile a quelli dell'infanzia, quel posto dove se potessi starei chiusa insieme ad altri, il mondo fuori e al contempo dentro. Non posso che ringraziare coloro con cui s'è vissuto tutto questo: da Gabriella Rusticali, a Daria Deflorian, al teatro ITC, al Teatro dei Venti, a Giulio De Leo.

Da questi incontri è nata anche la voglia di restituire, come un eco, lo stupore provato e la qualità dell'abisso indagabile tramite il teatro, portando i teatranti nei luoghi dove di rado passano, per far sì che gli spettatori potessero piano piano e poco a poco diventare un insieme di persone appassionate, dipendenti come me da quella misteriosa miscela di buio, spazio, luce, parola, corpo, gesto, assenza, presenza. Per questo ho provato a 'portarmi a casa' tutto questo: là dove mancava tutto l'unico modo era farselo da sé. Dal 2006 son passati dunque sul versante più ripido e solitario dell'Appennino dove vivo Morganti, Mazza, Deflorian-Tagliarini, Ariette, Giullare, Frongia, Galeotti, Vetrano-Randisi, Palminiello, Gualtieri, che hanno portato qualcosa di davvero 'inaudito' su per delle valli che posso dire abbandonate e isolate, e permesso di costruire e vivere l'esperienza del teatro a persone che talvolta mai prima hanno conosciuto questa occasione di entrare in sé e fuori di sé con gli altri. Ritengo che sia sempre insomma una questione corale.

Chi vuol vedere vien veduto, dice Brecht, e per tutto questo andirivieni credo che alcune persone abbiano posta della fiducia in me, chiedendomi di dare una mano là dove ci si dava da fare intorno a questo mistero del teatro: dal Teatro San Martino di Roberto Latini, al Teatro ITC di San Lazzaro, a piccole mansioni di scrittura nell'Inequilibrio di Castiglioncello direttore Paganelli, ad Arci Bologna per la realizzazione di B.r.i.s.a.! a qualche rivista web a altre persone diventate amiche a partire da una comune fame. Un misto di esperienze che hanno a che fare col linguaggio d'oggi, che parla in modo sgrammaticato con parole come 'comunicazione' 'promozione' 'operatori' 'comunicati stampa'.
Non so mai dunque come pormi, quando 'nell'ambiente' cercano di sapere da te chi sei nel senso di quale ruolo occupi, a che titolo sei presente a una conferenza o a un incontro. Sono innanzitutto una spettatrice innamorata, che è innamorata a partire dalla parola - alla quale sono legata in un modo profondo e verso cui ho dei debiti costanti in quanto scrivo, e che a tratti fa forse essere 'teatrante' anche me - un'innamorata che da questo innamoramento fa muovere il resto per renderlo condiviso e far innamorare altri. Senza uno scopo ulteriore, io credo. Semplicemente perché quando si è innamorati anche la sofferenza ha una sua dolcezza. Può sembrare naive e forse lo è; ma penso anche che tutto il carico di pensiero e di conseguenze ulteriori che ogni pratica artistica permette prendano sempre spunto da un moto semplice, irrazionale anche, un sentimento-sensazione che da un brivido o una commozione incommensurabili apre poi allo studio, alla riflessione, al pensiero stesso e dunque all'azione.

Nell'intervento che spero di riuscire a verbalizzare in modo coerente domenica alle Ariette, vorrei parlare di questo innamoramento, di cosa succede per me quando succede il teatro. Dunque a mio avviso dovrò parlare di morte e, di conseguenza, di vita. Da 'non addetta' e 'non esperta' quale sono.